
Nel 2014 è stato pubblicato un’interessante articolo sulle particolarità del cervello di persone altamente sensibili, definite in termini scientifici PAS (in inglese Highly Sensitive Person- HSP).
“Brain and Behaviour” fu la rivista che pubblicò tale articolo e molto apprezzato fu il lavoro dei ricercatori. Secondo alcuni studi soltanto il 20 per cento della popolazione mondiale presenta le caratteristiche anatomiche di un PAS, ma una percentuale ancora più ridotta è consapevole di entrare a far parte di questo caratteristico gruppo.
Sono soggetti che esibiscono un’intelligenza emotiva capace di grande empatia, orientati all’unione e alla socievolezza…
Questa caratteristica si presenta sin dall’infanzia con uno sviluppo precoce dei neuroni a specchio, e dell’insula, una piccola struttura situata in profondità nel nostro cervello che elabora emozioni, sensazioni e ambiente che ci circonda.
Interessante anche sapere che i PAS oltre ad essere più recettivi negli stimoli visivi e nel saper cogliere le sfumature nell’ambiente, presentano una bassissima sopportazione a rumori forti o luci intense.
Vivere come un PAS può risultare difficile, ci si sente in minoranza o non adeguati.
Allo stesso tempo, però, può essere un grande dono, per vivere una vita più intensa e ricca di emozioni.
Amano la compagnia, ma apprezzano i momenti di solitudine, per elaborare, riflettere, ritrovare se stessi. Sono caratterizzati da continue domande, intuizioni, tendenza al perfezionismo e vulnerabilità emotiva.
Non è facile vivere con un dono simile, ma come diceva la dottoressa Elain Aron: “La conoscenza delle emozioni è un’arma silenziosa, ma potente. Ci avvicina di più alle persone per capirle, ma, allo stesso tempo, ci rende più vulnerabili al dolore”.
Giacomo Berghenti
Non so se sono un PAS, però quando sono vicina a creature sofferenti mi sento come fossi al loro posto e sto malissimo.
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E saresti perfetta per essere una volontaria di Orme Svelate…
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In che senso?
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Nel senso che il nostro metodo di vicinanza alle persone con disagio è basato sul provare su se stessi il dolore altrui e ciò permette una vicinanza emotiva maggiore.
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Ma porta nuova sofferenza
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Il metodo prevede poi uno sguardo esterno con la consapevolezza del dolore che prova l’altro. Questa oggettività, ma vicina emotivamente, è quella che riesce ad essere utile
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E come faccio?
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dovremmo incontrarci per parlarne, non si può spiegare in un commento, purtroppo…
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Ti ho scritto in posta elettronica.
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Grazie Nadia!
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Ho usato la mia mail personale non evaporata@gmail.con perciò se ricevi posta sconosciuta con indirizzo che comincia con “na” sono io.
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L’ha ribloggato su Alessandria today.
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Ci sono tratti a me comuni.
Ne son felice.
Ora.
Anni fa, ero decisamente più vulnerabile.
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