I disturbi della conversione nella clinica psicosomatica

22q11.2 deletion syndrome Painting by Yuliya Kachan

I disturbi da conversione sono un gruppo di patologie espressamente previste all’interno del DSM V, la cui caratteristica principale consiste nella percezione di un’invalidante sintomatologia fisica pur in assenza di coinvolgimento organico. In altre parole il paziente percepisce una disfunzionalità sensoria o motoria che non ha alcuna relazione con una corrispondente menomazione o patologia organica. Una volta escluso qualsiasi coinvolgimento o imputabilità a carattere fisiologico, il disturbo risulta pertanto escluso dalla dimensione prettamente medica e viene assunto nella competenza psicologica, divenendo un disturbo psicosomatico.

Nel disturbo psicosomatico il corpo esprime un disagio che la mente non è stata capace di esternare, divenendo l’emblema di una pulsione che non ha trovato altro canale espressivo; si verifica un processo psicologico in base al quale un conflitto emozionale viene mascherato da un sintomo corporeo che, di questo stesso conflitto non accessibile alla coscienza, costituisce il compromesso vitale.

A rendere possibile tutto ciò è il meccanismo della rimozione, attraverso la quale l’Io rende inconscio il contenuto della pulsione non esternabile e trasferisce sul corpo “compiacente” la componente affettiva della pulsione stessa (Freud, 1895; 1901). E il sintomo che ne consegue non viene scelto a caso: esso rivela, per quanto velatamente, la natura stessa della pulsione che l’ha provocato. Ad esempio, un ragazzo non poteva muovere il braccio perché, inconsciamente, con lo stesso braccio avrebbe voluto colpire il padre che a sua volta picchiava la madre. E un paziente impiegato in un supermercato non muoveva la mano perché con quella stessa mano avrebbe voluto compiere un furto nel luogo di lavoro.

Quelli celati al di là di un simbolo di conversione isterica sono tutti desideri considerati inaccettabili dal Super-Io, e dunque estromessi dalla coscienza, per non creare turbamenti psichici che l’Io non sarebbe in grado fronteggiare. Ma il disagio non scompare, pur attraverso l’impiego di questa liquidazione del pericolo: il somatizzatore ha necessità di avere sempre con sé il suo sintomo, si identifica con lo stesso e non vuole separarsene, perché solo tramite il sintomo riesce a percepire e a dar forma ad un’ansia altrimenti incontrollabile, un’emozione non verbalizzata e dunque non simbolizzata (Zacchetti e Castelnuovo, 2013). Per quanto disfunzionale, si tratta quindi di un tentativo di adattamento, un modo per sopravvivere ad un disagio senza nome.

DISTURBO DA DEGLUTIZIONE

Si tratta dell’impossibilità di deglutire ciò che viene introdotto all’interno del cavo orale, sotto forma di sostanza liquida o solida. Dopo aver escluso qualsiasi coinvolgimento patologico a carico del sistema organico e neurologico predisposto alla deglutizione (faringe, laringe, trachea, esofago), può essere indagato l’aspetto psicologico della malattia, nel tentativo di scoprire nella stessa una possibile origine conflittuale isterica. La sensazione del cibo che si paralizza e non riesce a scendere lungo l’esofago potrebbe rappresentare l’impossibilità inconscia di mandar giù qualcosa di non accettato, di non rielaborato, che fa soffrire e non può essere verbalizzato. In particolare, la difficoltà nel deglutire sostanze liquide, secondo la psicoanalisi, potrebbe rappresentare un rapporto conflittuale con la figura materna, dalla quale non si è stati capaci di svincolarsi completamente, affermando una propria identità fisica ancor prima che psicologica (Zacchetti e Castelnuovo, 2013). La paura o il disagio che alcuni soggetti manifestano nei confronti del mare, dei fiumi, dei corsi d’acqua, potrebbero facilmente derivare da un conflitto materno non risolto e reso inconscio dall’Io.

In questi casi la madre è vista come un oggetto ambivalente che, se da una parte salva e nutre, dall’altra agisce con ruolo persecutore nei confronti del bambino, provocandogli angosce disintegranti che non è capace di verbalizzare, e che decide pertanto di esprimere col corpo.  All’interno di un rapporto diadico disfunzionale i confini somatici tra madre e figlio non sono adeguatamente stabiliti, cosicché l’uno si perde nell’altro in una simbiosi confusiva. Il genitore proietta se stesso nel figlio a mezzo di investimenti narcisistici che impediscono al bambino di costruire un Sé autonomo e consapevole,  e lo costringono a percepire la fantasia inconscia che il proprio corpo non gli appartenga, ma sia sotto il controllo di un altro: tale realtà intrapsichica causa la sperimentazione di angosce destabilizzanti che, non potendo essere verbalmente espresse vengono sostituite da sintomi somatici di varia natura.

Anche il disturbo da deglutizione potrebbe trovare la propria eziopatogenesi in un rapporto diadico disfunzionale, per lo più causato da una relazione simbiotica in cui il legame materno non è stato adeguatamente elaborato nelle sue componenti ansiose né dalla madre né dal figlio, cosicché quest’ultimo inizia a percepire ogni separazione da lei come un evento critico, irrisolvibile, capace di disintegrarlo totalmente. Ecco dunque l’instaurarsi del conflitto: se da una parte si anela la separazione dalla madre per riconoscersi come nucleo soggettivo a se stante, dall’altro si teme una separazione mortifera che il Sé non potrebbe superare.

DEGLUTIZIONE DIFFICOLTOSA: UN CASO CLINICO

Non riesco a mandar giù, al punto che sento fermarsi il boccone in gola, e ogni volta che deglutisco ho paura di soffocare….temo che quello stesso boccone potrebbe fermarsi e togliermi il respiro.” Queste sono le parole di Cristina, 25 anni, che vive con la madre, il padre e la sorella più piccola, studia all’università e non ha amici. È arrivata dalla psicologo dopo aver svolto una serie di indagini a livello organico nel tentativo di identificare una possibile causa del suo problema, che le sta condizionando l’esistenza privandola della serenità. “Non riesco più nemmeno ad uscire di casa, e ho paura a mangiare da sola perché se dovessi avere difficoltà nessuno mi aiuterebbe e io potrei soffocare……..ho paura che gli altri si accorgano del mio problema e mi prendano in giro.” In ragione di ciò Cristina ha interrotto le relazione con il fidanzato, e ha fortemente limitato l’interazione sociale che aveva prima della comparsa del sintomo. Sintomo che si è verificato per la prima volta, dichiara lei, poco tempo dopo la morte della nonna materna, alla quale era molto affezionata. La madre crede che il suo problema abbia una natura esclusivamente psicologica, dice Cristina: “lei ha sempre creduto di sapere quello che provo, i mali e i problemi che ho, mi ha sempre dato la colpa di tutto e crede di conoscere tutte le risposte…quando sto male dice che me lo invento, che è soltanto ansia e che se mi impegnassi davvero potrei riuscire a migliorare. Ma che ne sa lei di quello che sento …..come pretende di conoscere anche il significato e la natura dei miei sintomi? Cos’è, forse, un dottore?”

Nelle sedute successive lo psicologo scopre che la madre di Cristina è una di quelle figure materne oblative, dedita al sacrificio per il benessere delle figlie, ma al contempo sempre pronta a fare avvertire il peso del suo aiuto, il dolore che le costa, e quanto le figlie dovrebbero esserle grate per gli sforzi che ha fatto per loro. Una di quelle mamme, dice Cristina, che “ti vuole vene solo fino a quando fai ciò che vuole lei, e che quando non lo faccio vorrebbe punirmi persino adesso che sono grande”. Cristina rivela che la madre si è sempre sentita superiore alle due figlie, e che ai loro occhi si è dipinta indispensabile. La convinzione che ha loro trasmesso, fin da bambine, è volta a credere che senza di lei non sarebbero state in grado di far nulla, e che il mondo è un posto pieno di pericoli, di persone cattive che vogliono prendersi gioco di te. In fondo ti puoi fidare soltanto della famiglia. Una madre volta ad ottenere il rispetto che l’affetto, una che stabilisce le regole e guai a chi le disattende. Una che non sa nemmeno lei quello che vuole: “ti chiede di crescere ma è la prima a trattarti come una bambina, ti chiede di fare le cose da sola, perché lei non ti può sempre risolvere i problemi, ma appena fai da sola dice che hai sbagliato, che non dovevi, che in fondo te lo sei voluto, che te lo meriti, perché non avresti avuto nessun problema se le avessi dato ascolto.”

Lo psicologo capisce l’atteggiamento della madre di Cristina, tipico dei genitori che proiettano nei figli le loro parti negative, e negli stessi cercano di controllarle, di dominarle, talvolta di distruggerle. Coloro che non riescono a riconoscere nei figli uno stato di autonomia e di indipendenza, ma che pretendono di costruire in essi il proprio prolungamento psichico e somatico, impedendo loro di raggiungere una corretta consapevolezza del Sé, una divisione simbiotica dall’utero materno (MacDougall, 1989). Le eterne bambine che prendono vita da questo rapporto diadico sono rese oggetto di continui attacchi da parte della madre, che in esse proietta i propri oggetti persecutori per non sentirsene interiormente assediata, e che nell’unione simbiotica con le figlie riesce ad aggirare rischi di frammentazione del suo Sé fragile e non integrato. Il Sé somatico della madre non può separarsi dalla figlia per la sua stessa sopravvivenza.

Cristina continua a spiegare come sin da bambina abbia sofferto di disturbi di separazione, e come ogni volta in cui doveva stare lontana dalla madre sperimentava vissuti di angoscia che rendevano difficile la frequentazione della scuola, e che spesso si tramutavano in veri e propri attacchi di panico. Poi la situazione è migliorata, Cristina si è fatta degli amici, durante l’adolescenza ha avuto un paio di storie e infine un fidanzato serio. Ma le sensazioni di paura sono rimaste, si manifestano ad ogni possibile cambiamento nella sua vita, e la soluzione è quella di chiedere conferma alla madre prima di fare qualsiasi cosa.

Lei mi critica sempre, non approva le mie scelte, mi fa sentire inadeguata. Ogni volta che mi guarda è come se mi disprezzasse, quando mi aiuta è come se in realtà non volesse farlo, e le rare volte in cui mi dice vieni qui, è come se volesse dirmi anche vai via”.

Cristina non riesce a separarsi dalla madre, anche se certe volte la odia, sa che senza di lei sarebbe persa. Ogni volta in cui è lontana da lei sente che potrebbe accaderle qualsiasi cosa, è ansiosa, si sente preda di una tensione incoercibile. Anche durante il disturbo di deglutizione le sue strategie di coping non cambiano: riesce a far fronte alla paura solo ricorrendo alla presenza di un altro che le stia accanto mentre ingoia il boccone, qualcuno che le stia vicino o che le porga il braccio, perché lei possa stringerlo, aggrapparvisi e sentire meno paura. Ma quando non basta nemmeno questo e la paura è troppo grande ricorre di nuovo all’intervento materno.  

Con la mamma le cose migliorano, riesce a deglutire, seppur con fatica, anche cibi che le sembrano più pericolosi, e può persino bere tutto d’un fiato un bicchiere d’acqua. Certo, “le difficoltà rimangono”, dice, “ma se lei mi sta vicina mi sembra di essere più al sicuro. Forse, anche se il boccone non va giù, lei potrà impedirmi di soffocare. Saprà come fare per salvarmi”. Cristina non ha maturato un sufficiente ed integrato senso del Sé, e teme che qualsiasi cosa sia in grado di ridurlo in frantumi. Per questo pensa di non poter fare nulla da sola, nemmeno mangiare, e si aggrappa agli altri per riuscirci. Soprattutto con il liquido, poi, che ha paura di gestire perché, come dice lei, le si perde in gola, e non riesce a controllarlo. È come se il potere della madre fosse incontrollabile, e lei non potesse sottrarvisi né farne a meno. Questa visione scissa e fluttuante si rispecchia in una percezione instabile del Sé, e in una natura debole dell’Io che non riesce a controllare l’ansia pervasiva della separazione perché non riesce ad esistere da solo.

La madre è il liquido primigenio, il liquido che dà vita e nutre, ma al contempo può diventare una trappola, se è percepito come un oggetto negativo e ostacolante. Esattamente come il mare, che può navigare e condurre lontano, ma al contempo può soffocare, può fare annegare. Esiste dunque un conflitto che non riesce a risolversi funzionalmente. La madre è necessaria alla sopravvivenza, ma al contempo rappresenta la minaccia più grande alla sopravvivenza stessa.

Esiste un momento, nel percorso evolutivo infantile, che vede il bambino in grado di staccarsi dalla presenza materna per sperimentare in autonomia la propria realtà psichica e sociale. Ma ciò può avvenire solo al termine di una fase detta transizionale (Winnicott, 1968; 1970), nella quale l’oggetto materno viene sostituito da un oggetto concreto cui l’infante si aggrappa in cerca di sostegno e di supporto, nel tentativo di rendere più graduale e meno traumatico il distacco materno; l’illusione psichica che se ne origina è quella di avere ancora accanto la madre, e di potersi rifugiare in lei ogni qualvolta l’ambiente esterno si mostra troppo rischioso per essere affrontato. Un ciuccio, un orsacchiotto, un pupazzo: il bambino si illude di creare l’oggetto e nel frattempo vi si appoggia; è questa la modalità funzionale con la quale si riesce a raggiungere un’indipendenza psichica, la capacità di stare da soli che aiuta a diventare adulti.

In un rapporto diadico disfunzionale tutto questo non avviene, e certo non è avvenuto nel caso di Cristina. La madre le ha tolto ogni responsabilità, ma anche ogni libertà sulla gestione corporea ed emotiva, e questo le ha impedito di riconoscersi come un oggetto degno di indipendenza e autoaffermazione. È la madre il suo oggetto transizionale, è lei a cui si aggrappa ogni volta in cui deve deglutire, in quell’atto con il quale manifesta la sua paura di affrontare il mondo da sola e di separarsi dalla pelle materna  (Winnicott, 1970).

Ma al tempo stesso si aggrappa a lei per tenere a bada le pulsioni distruttive inconsce che nutre verso l’oggetto materno, la sua voglia di divorarlo, di deglutirlo e distruggerlo per non doverne avere più bisogno (Klein, 1952). Pensieri che il SUPER-IO nevrotico, e sin troppo opprimente in lei, non le consente di esplicitare e di attuare. Da qui l’impossibilità di deglutire. Per non soffocare se stessa, e non soffocare nemmeno la madre, che di sé è il prolungamento, è la proiezione. In questo caso è mancata l’ambivalenza: il bambino non può contrapporsi, non può manifestare un Sé contrastivo. Può soltanto amare questa madre perfetta.

In realtà, con il suo sintomo isterico, Cristina cerca inconsciamente di stabilire quei confini corporei che risultano ancora indefiniti tra lei e la madre, quella madre che penetra all’interno del suo corpo, lo manipola, pretendendo di interpretare persino i suoi sintomi come e meglio di lei. Agli occhi della figlia questa madre si è resa onnipotente, ed è così che lei la considera. Ma questo investimento pulsionale, se da una parte ha consentito il potenziamento narcisistico del Sé della madre, dall’altro ha privato Cristina della possibilità di esistere al di là della stessa. E l’unico modo che Cristina ha per confessare questa necessità inespressa, è di tener vicina la madre per allontanarla. Di tenerla vicina per separarsi da lei. Così, stringendola è come se le dicesse “senza di te non posso far nulla, non riesco nemmeno a mangiare se non ci sei..” ma al contempo le dicesse “stai lontana…non entrare dentro di me. Io sono altro da te”.

IN CONCLUSIONE

Con l’aiuto di alcune sedute ad orientamento psicoanalitico le è stato possibile far emergere il conflitto che pervadeva il suo inconscio, verbalizzare emozioni mai chiarite, divenire consapevole di un Sé autonomo e indipendente, finalmente diverso da quello della madre. L’oggetto cattivo che in lei si manifestava nell’intransigente SUPER-IO identificato con l’introiezione materna, è divenuto con il tempo meno persecutore, ha perso il suo potere coercitivo. E anche la paura di Cristina si è diluita, le ha consentito di integrare parti di sé non ancora rielaborate, di instaurare meccanismi di difesa più maturi, di guardare con occhi diversi il mondo e se stessa. Ora Cristina non ha paura di deglutire perché non vuol più soffocare la madre, e neppure vuole distruggerla. Ora ha imparato a distaccarsene senza per questo sentirsi in colpa, sa difendersi dai pericoli che esistono e ancor più da quelli che non esistono affatto. Ora riesce a “mandar giù” la madre senza paura di distruggerla, e con essa riesce a deglutire, e dunque ad accettare, la consapevolezza di poter affrontare un mondo che non le fa più paura.

L’evoluzione emotiva e cognitiva è avvenuta anche grazie al sostegno dell’Io ausiliario del terapeuta che, sostituendosi al supporto materno disfunzionale, l’ha aiutata a superare la fase transizionale e a riconsiderare tutti quegli aspetti conflittuali che Cristina non riusciva a gestire, simbolizzandoli in una serie di patologie fisiologiche la cui presenza le forniva tuttavia una percezione, per quanto illusoria e sofferta, di controllo. L’unico che potesse permettersi.  

Tramite strumenti di validazione empatica, chiarificazione e confrontazione, la terapia psicoanalitica ha contribuito a far emergere la verità psichica che Cristina si ostinava a soffocare nel disturbo di conversione, consentendole di capire che in realtà, pur nei suoi discorsi di apparente onnipotenza, la madre si sentiva ancor più fragile di lei, e ancor più di lei temeva di separarsi dalla figlia. La sua unica forza consisteva nel farla sentire debole.

Adesso Cristina lo ha capito, ed è riuscita a costruire un Io solido e consapevole capace di farla riappacificare con la madre e con se stessa. Quella se stessa che non era mai esistita senza la madre. Quella se stessa che, in fondo, “era la madre”.

M. Rebecca Farsi

BIBLIOGRAFIA

  • Freud, S. (1895), Studi sull’isteria e altri scritti (1886-1895), C.L. Musatti (a cura di), Bollati Boringhieri, Torino 1989;
  • Freud, S. (1901), “Casi Clinici 3 , Dora: frammento di un’analisi di isteria, 1901”, CollanaBiblioteca Boringhieri, n. 17, Bollati Boringhieri, Torino 1976;
  • Klein, M. (1952) Il mondo interno del bambino, Bollati Boringhieri, Torino (2012);
  • McDougall, J. (1989), Teatri del corpo. Un approccio psicoanalitico ai disturbi psicosomatici, tr.it. Raffaello Cortina, Milano, (2014);
  • Winnicott, D.W. (1970), Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Armando, 1974;
  • Winnicott, D.W.(1968),  La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, Roma, Armando, 1982
  • Zacchetti, E., Castelnuovo, G. (2013), Clinica psicologica in psicosomatica. Medicina e psicologia clinica tra corpo e mente, Franco Angeli, Milano, 2016.

Immagine: 22q11.2 deletion syndrome (Yuliya Kachan)

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  1. Le perle di R. ha detto:

    Un articolo ben strutturato e di grande aiuto alla comprensione di argomenti così complessi e delicati.

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