
L’attacco di panico si presenta come una scarica parossistica di ansia, inattesa e incoercibile, a seguito della quale il soggetto subisce una percezione di vulnerabilità ad una serie di sensazioni psichiche che si trasferiscono nella dimensione somatica e viceversa, attivando un circolo vizioso in cui la paura del panico diviene il panico stesso.
L’attacco di panico non deve essere tuttavia confuso con il disturbo di panico, che si verifica solo se il soggetto trascorre il periodo di un mese nella paura che l’attacco si ripresenti, accompagnato da una disfunzionalità comportamentale volta all’evitamento, anche eventuale, dello stesso.
Tra i numerosi studi effettuati in merito, quelli che si sono soffermati sull’analisi dei sintomi del disturbo di panico hanno cercato di individuare un possibile collegamento tra gli stessi e i tratti cognitivo-comportamentali del paziente, nel tentativo di evidenziare una vulnerabilità soggettiva allo sviluppo patologico.
Tra le dimensioni prese ad oggetto è emersa una certa rilevanza dei bias attenzionali a carico dei DAP: questi pazienti, in particolare, mostrano una spiccata attenzione ai propri processi interni, all’insorgenza sintomatologica e alla propriocezione, sottoponendo ognuno di questi aspetti ad un intenso controllo. Tale ipervigilanza propriocettiva aumenta la probabilità di identificare o di interpretare in modo catastrofico le sensazioni rilevate. Bisogna infatti aggiungere come, all’eccessiva attenzione verso la propria sintomatologia interna e all’arousal, i pazienti DOP aggiungano una buona dose di catastrofismo inerente la direzione e l’esito dei sintomi. Così, paradossalmente, un controllo effettuato a ragioni preventive e di evitamento del pericolo diventa esso stesso una fonte ansiogena.
Le sensibilità enterocettiva nel panico porterebbe i soggetti ad ipervigilare l’insorgenza di qualsiasi sintomo e ad interpretarla come il preludio di una catastrofe fisiologica. Alcuni studi hanno ad esempio dimostrato che chi soffre di disturbo di panico ha una maggiore capacità di percepire i propri battiti cardiaci anche senza controllare il polso: questo potrebbe risultare spiegabile dalla frequenza con la quale questi soggetti effettuano la misurazione del battito, a seguito della quale maturano una sensibilizzazione ad ogni possibile variazione del ritmo stesso (Taylor, 2006; Ehlers , 1993).
Questa maggiore reattività fisiologica agli stimoli endogeni rappresenta una costante nel disturbo di panico: nello specifico, la dimensione emotiva dallo stesso generata, indurrebbe il paziente ad occuparsi selettivamente di informazioni minacciose per la persona, come quelle associate alle sensazioni fisiche (McNally et al., 1994) e alla vigilanza corporea (Schmidt et al., 1997), tralasciando ogni possibile elemento situazionale periferico.
La propriocezione diviene dunque il fattore saliente di osservazione, da cui si origina un processo di attenzione focalizzata e sostenuta su questa specifica dimensione. Controllare il corpo significa dunque controllare anche l’angoscia, che altrimenti risulterebbe senza oggetto e ancor meno gestibile.
L’ESPERIMENTO DELLE “CUFFIE”
In realtà i corpi sono naturalmente predisposti a produrre una serie di rumori, che possono essere interpretati con maggiore o minore catastrofismo in relazione non solo al proprio pensiero, ma anche all’attenzione che viene posta al sintomo stesso, e dunque alla capacità con la quale il soggetto percepisce le sensazioni e presta un focus attenzionale su di esse.
Dobbiamo inoltre osservare come l’attenzione rivolta agli stimoli del nostro corpo – che nel caso del panico è eccessiva- aumenta la probabilità di identificare le sensazioni fisiche e diminuisce al contempo la possibilità di percepire gli stimoli ambientali esterni, in una relazione inversamente proporzionale. È come se focalizzarsi sulla realtà ambientale servisse da fattore di distrazione verso l’attenzione enterocettiva, e agevolasse il paziente a creare un focus attentivo ulteriore rispetto a quello del sintomo interno temuto: con il vantaggioso risultato di trovare un diversivo, un fattore in grado di diluire l’angoscia.
Pennebaker e colleghi (1982) hanno compiuto una serie di studi finalizzati a dimostrare come le informazioni che giungono da fonti esterne ed interne si trovino in competizione reciproca, e come la maggior presenza delle une si verifichi a svantaggio delle altre. In definitiva, ove l’ambiente esterno contenga un minor numero di informazioni in grado di destare l’attenzione del soggetto, questi sarà naturalmente portato a prestare maggiore attenzione alle proprie sintomatologie interne, specie in presenza di un carico fisiologico e cognitivo rilevante (ad esempio quando si è sostenuto uno sforzo fisico o psichico rimarchevole).
In un esperimento ad hoc questa teoria ha trovato la propria conferma. Tre gruppi di studenti furono chiamati a svolgere un gravoso compito fisico, e a ciascuno di essi venne consegnato un paio di cuffie attraverso le quali era possibile ascoltare in amplificazione suoni diversi durante lo svolgimento del compito: il primo gruppo ascoltava suoni provenienti dalla strada (come rumori di clacson frammenti di conversazioni, motori di macchine), un altro gruppo ascoltava il proprio respiro amplificato e l’ultimo gruppo non ascoltava nulla.
I soggetti nella condizione di focus interno, e dunque quelli che percepivano nelle cuffie il proprio respiro, hanno riportato al termine del compito maggiore stanchezza e un maggiore numero di sintomatologia fisica come mal di testa, sudorazione, accelerazione cardiaca. Nonostante quindi il grado di sforzo fisico fosse eguale per ciascuno dei tre gruppi, la condizione di focus attentivo interno ha provocato maggiore sviluppo di sintomi somatici e di disagio fisiologico nel focus interno rispetto al focus esterno e al gruppo di controllo.
CONCLUSIONI
Sembra evidente come nel soggetto affetto da disturbo di panico giochi un fattore determinante l’attenzione enterocettiva, che appare eccessiva, alterata e male interpretata al punto da costituire non solo un fattore inibente il controllo del panico, ma altresì un fattore agevolante la sua insorgenza.
Nella dimensione terapeutica si potrebbe dunque pensare all’inserimento di strumenti volti a correggere i bias attentavi dei pazienti, che aiutino non solo a favorire interpretazioni meno catastrofiche dei sintomi, ma che agiscano preventivamente, impedendo lo sviluppo di attenzioni prolungate, sostenute ed eccessive alla percezione di ogni minimo segnale emanato dal corpo. È dunque necessario distogliere l’attenzione enterocettiva cercando elementi distrattori provenienti dall’esterno grazie ai quali il paziente, in una sorta di rieducazione percettiva, sarà in grado di evitare una focalizzazione disfunzionale del proprio ambiente somatico interiore, considerata a ragione tra i fattori facilitanti l’insorgenza del panico.
M.Rebecca Farsi
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Ehlers, A. (1993). Somatic symptoms and panic attacks: A retrospective study of learning experiences. Behaviour Research and Therapy, 31, 269-278.
McNally, R.J. (1994).Panic Disorder: A critical analysis. New York: Guilford
Schmidt, N. B.,Larew, D.R. & Trakowski, R.J. (1997). Body vigilance in panic disorder. Evaluating attention to bodily perturbations. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 65, 214-220;
Taylor, S. (2006), Disturbo di panico, tr.it. Monduzzi editore, Parma.
Immagine: Panic Attack – Limited Edition 3 of 5 (Camila Marchon)
Anche io ne soffro, ed è vero, mi ostino sempre a vedere se ho dolori e sensazioni che ogni tanto secondo me mi sento ma in realtà è una percezione mia e basta, non perché io ho un reale dolore. Mi autoconvinco delle cose, sbagliando. Ma gli attacchi di panico se non controllati ti fanno entrare in un circolo vizioso se non controllati
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Circolo vizioso secondo me *
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Esatto, circolo vizioso è proprio il termine giusto: si avverte il sintomo, se ne ha paura in maniera eccessiva, e in risposta a ciò il sintomo aumenta ancor di più così come la nostra percezione dello stesso e il disagio che ne deriva. Il sintomo alimenta il panico e viceversa. Si tratta di un meccanismo disfunzionale che, dopo essersi instaurato, si attiva in automatico. La psicoterapia, sotto questo punto di vista, svolge una funzione rieducativa: quella cognitivo-comportamentale, la più adatta per i disturbi di panico e ansiosi in genere, insegna a non temere il sintomo, a gestire lo stress in caso di sua insorgenza, a valutare prospettive diverse da quelle catastrofiche di cui siamo convinti. Basta imparare che, se sentiamo il battito del cuore un po’ più elevato, ciò non significa che stiamo per avere un infarto, né che stiamo per morire. Non bastano gli psicofarmaci. La psicoterapia è necessaria in una finalità psicoeducativa. Tantissime persone oggi soffrono di attacchi di panico, proprio a causa di una cattiva gestione dello stress e di una scorretta interpretazione dei propri sintomi corporei.
Un saluto, e grazie mille per il tuo commento!!
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L’ha ripubblicato su Alessandria today @ Web Media. Pier Carlo Lava.
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L’ha ripubblicato su PSICOFLORITERAPIA QUANTICAe ha commentato:
Il panico una sensazione che limita la vita i
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