
“Maestro, disegnami la Torre: la Pallata. Non la torre perfetta come naturalmente ti verrebbe… Disegna la Torre coi pensieri dei miei anni vissuti attraversando quelle mura che ancora m’imprigionano, mi proteggono. Quelle mura che m’insegnarono a volare.”
Io e mamma camminavamo nei vicoli con l’aura delle passanti ingenue e le signore con le unghie rosse e le bocche ridotte a fessure, che in pieno giorno offrivano la vista delle calze a rete mentre cucivano un corredo logoro davanti ad una porta semichiusa mi parevano tristi.
Mamma era una scrittrice che aveva smesso di esserlo ed io una bambina che osservava tutto da vicino perché miope. Oltretutto da vicino si sentivano meglio gli odori ed i sentimenti. Tutto questo mi portava a dare un’anima ad ogni cosa e a scoprire anzitempo la Poesia. Questo ed il fatto d’esser cresciuta in una Torre.
Dalla Pallata erano belle anche le nuvole pesanti, quelle nuvole che annunciano disastri nei pensieri ipossici e nelle conseguenti azioni.
Da lassù i tetti delle case erano abbastanza vicini da mostrare le sfumature e le crepe del cotto delle tegole ma preservavano l’inevitabile distacco dal cielo.
Perché nei vicoli ci si difende dal cielo.
La Pallata era adiacente alla casa e al negozio dei nonni. Tutto era un salire affidandosi a scale dai pioli incerti della loro direzione, questa sensazione sommata agli orologi del negozio che segnavano ore diverse creava una vertigine spazio tempo forse simile a quella provata da Federico II ed Isabella Boschetti quando entravano nella stanza dei Giganti. Nella Pallata alcune scale erano di solida pietra ma talmente scuro era il tragitto che non ti sentivi mai al sicuro, poi, nelle sue stanze, il cuore si chetava nell’abbraccio dell’odore dei muri.
La casa aveva due accessi: la porta su Corso Goffredo Mameli oppure dall’interno del negozio. Nascosta alla vista dei clienti v’era una porta ed oltre si accedeva alla casa salendo, in penombra, una grossa scala appoggiata al muro, si entrava direttamente in cucina e si veniva avvolti da un nuvola dolce. La nonna era piccola e sapeva di vaniglia, come i suoi budini. Camminava per casa inseguita dai gattini e cucinava risotti memorabili. Dopo pranzo, mentre il nonno faceva la siesta con i pensieri rannicchiati tra le braccia conserte appoggiate sul tavolo, lo zio s’immergeva in una lettura sprofondato signorilmente nella sua poltrona accanto a una finestra della grande sala circondato dalle note di Chopin, Brahms, Shoemberg nell’attesa di riaprire il negozio, nonna saliva lentamente le scale e nel grande lettone credo sognasse. Le uscivano nuvolette dalla bocca con scritto “Puff”; per me, bambina, erano i suoi sogni e li contavo, anziché dormire. Divisa tra due case, divisa fra le filastrocche della nonna, le favole edulcorate della mamma e quelle cruente di un padre ansioso e spesso assente, suggestionata dai racconti sulla torre sviluppai la mia innata tendenza alla fantasia e la mia turbolenta infanzia trascorse senza mai andarsene del tutto.
Nell’adolescenza il rapporto con la torre si fece più profondo. A chi confidare i miei pensieri infuocati se non alle sue mura così solide? O all’enorme ingranaggio del suo orologio? Così, come a suo tempo aveva fatto mia madre affidavo i miei sogni, i miei timori ad un luogo che già ne aveva accolti tanti.
Nonna Ida decise di andarsene in un giorno di Aprile del ’79. La casa dei nonni e la Torre diventarono per me l’unico modo per sentirla ancora vicina. Così m’intrufolavo nel suo letto e immaginavo grossi “puff” , aprivo poi la porta che conduce alla Torre, salivo tutte le scale fino alla campana e lì con una nuvola lasciavo libero il mio dolore, il suo, quello di mia madre e quello delle donne che in quella torre furono imprigionate .
Con Daniela, mia sorella, nei primi anni 80 pensammo che la torre avrebbe potuto ospitare un Atelier d’Arte nelle sue mura. Avviammo una raccolta firme per presentare in Comune il progetto. Nel frattempo anche il nonno se ne andò e lo zio maturò l’idea di cedere la licenza del negozio. La vita non è quella che sogni. Anche se sei cresciuta in una torre.
Salii per l’ultima volta in Pallata nell’estate del 2007, quando lo zio dovette abbandonare la casa diventata inagibile. Non fu facile liberarla da ciò che si ammassò nelle sue stanze, compresi i ricordi.
Quando le passo accanto sono assalita da una mistura di compiacimento, nostalgia e disperazione, sento il privilegio di aver vissuto tanto dentro quelle mura ed il rovescio della medaglia: il dolore della separazione. Non sarei quella che sono senza le filastrocche della nonna, le novelle di mia madre, le paure di mio padre, il gusto per il “bello” dello zio, il ticchettio degli orologi e lei: la Torre.
Simonetta Fantoni
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